Turchia al voto nel post-terremoto, l’ultima chiamata per la democrazia? L’intervista: “La vera domanda è se Erdoğan accetterà l’eventuale sconfitta”
Per la prima volta Erdoğan è in svantaggio nei sondaggi ma la coalizione dell’opposizione è fragile perché formata da partiti molto diversi fra loro, tuttavia può contare sull’appoggio “esterno” dei filocurdi dell’Hdp. La gestione dell’emergenza terremoto, l’inflazione, il terrorismo: in Turchia si profilano le elezioni più incerte di sempre. L’intervista a Eleonora Masi, caporedattrice della sezione “Vicino Oriente” del quotidiano East Journal
ANKARA (Turchia). Il prossimo 14 maggio la Turchia sarà chiamata alle urne per le elezioni politiche e per scegliere il nuovo presidente della Repubblica. Per la prima volta Recep Tayyip Erdoğan, “il sultano” come lo chiamano i suoi detrattori, sembra essere in difficoltà: gli ultimi sondaggi danno in vantaggio il suo avversario, Kemal Kılıçdaroğlu, mentre il Paese deve fare i conti con l’inflazione alle stelle e il devastante terremoto che ha provocato oltre 57mila vittime e 2,2 milioni di sfollati. Per alcuni analisti la Repubblica turca si trova di fronte a un bivio: democrazia o il completamento della deriva autoritaria sul modello di quanto avvenuto nella Russia di Vladimir Putin, ma è davvero così?
“Questa è la classica domanda da un milione di dollari ma non credo che quest’analogia con la Russia stia in piedi”, afferma Eleonora Masi, caporedattrice della sezione “Vicino Oriente” del quotidiano East Journal, che ha appena lanciato il podcast “Cose turche” dove vengono raccontati gli ultimi 10 anni del Paese dal punto di vista dei millennial. “So che i turchi non abbassano facilmente la testa e, nonostante la repressione, in questi anni sono sempre scesi in piazza se c’era da protestare”.
Per l’appunto l’opposizione al governo del presidente Erdoğan è il collante che tiene insieme la variegata coalizione che sostiene Kılıçdaroğlu, il leader del Partito Popolare Repubblicano (Chp). Proprio in contrapposizione “all’alleanza del popolo”, capitanata dal Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp) di Erdoğan e sostenuta da movimenti nazionalisti e islamisti minori, si è formata “l’alleanza della nazione” o “Tavola dei 6”, dal numero di partiti che la compongono.
“Si tratta di uno schieramento molto variegato – precisa Masi – che ha attraversato un percorso molto tortuoso per arrivare a una candidatura condivisa”. Ovviamente c’è il Chp che è appoggiato da alcune formazioni minori fra cui il Partito della Felicità (conservatore islamista) e il Partito Democratico (Centrodestra), ma anche da ex membri o alleati dell’Akp come il Deva-Partito democratico e progressista dell’ex ministro dell’economia Ali Babacan, il Partito del Futuro dell’ex primo ministro Ahmet Davutoğlu e infine il Buon Partito fondato da Meral Akşener, un’altra ex ministra che è legata al gruppo paramilitare nazionalista dei “lupi grigi”. Quest’ultima in particolare per entrare nell’alleanza della nazione ha dovuto ammorbidire le sue posizioni.
Sullo scenario elettorale un ruolo di primo piano sarà giocato dal Partito Democratico dei Popoli (Hdp), per certi versi la vera e propria nemesi di Erdoğan. Finora il partito filocurdo è sempre riuscito a superare la soglia di sbarramento “monstre” che in Turchia è fissata al 10%, diventando al contempo uno dei principali bersagli della repressione interna. L’attuale leader dell’Hdp, Selahattin Demirtaş, assieme ad altri esponenti dello stesso partito si trova in carcere con l’accusa (del tutto strumentale) di aver fatto “propaganda terroristica”.
“Non è un caso che l’attuale presidente turco abbia ribattezzato i suoi avversari ‘Tavola dei 7’, riferendosi al sostegno esterno fornito dall’Hpd a Kılıçdaroğlu”, spiega la caporedattrice dell’East Journal. “Questo partito ufficialmente non fa parte dell’alleanza ma di fatto appoggia Kılıçdaroğlu avendo scelto di non presentare un proprio candidato alla presidenza, una situazione che Erdoğan cercherà di sfruttare a suo vantaggio durante la campagna elettorale”.
Ad ogni modo il vero ago della bilancia di queste elezioni potrebbe essere il terremoto. All’inizio della sua carriera politica Erdoğan fondò il suo successo criticando la gestione post-terremoto del 1999 (che causò circa 18mila morti): “È vero, adesso in molti dicono che sarà proprio la gestione dell’emergenza provocata dal sisma ad annientarlo ma non sono sicura che sia così semplice, d’altra parte il terremoto è già diventato una questione politica”.
Come sottolinea Masi una delle prime discussioni ha riguardato l’opportunità o meno di posticipare le elezioni. Successivamente entrambe le coalizioni hanno trovato un accordo per votare il 14 maggio: “Eppure non è ancora chiaro come le persone colpite dal sisma potranno esprimere il loro voto”. Fra le ipotesi c’è quella di farle votare nel luogo dove si trovano domiciliate in questo momento: “Pure questa è una delle armi in mano a Erdoğan, perché nelle aree colpite dal terremoto vive la popolazione a maggioranza curda, anche se persino qui l’Akp poteva contare su uno zoccolo duro di elettori”. In molti però si aspettavano più aiuti, finora il Governo non è riuscito a dare una risposta adeguata alla popolazione e non sono mancati gli scandali sulla gestione dell’emergenza, per questo ostacolare l’accesso al voto di queste persone potrebbe favorire l’Akp.
C’è poi da considerare la questione della sicurezza. Lo scorso novembre il centro di Istanbul è stato scosso da un violento attentato terroristico che ha provocato 39 vittime. “Tendenzialmente i periodi pre-elettorali sono sempre delicati – ricorda Masi – anche questo attentato rientra in una serie di tensioni che precedono le elezioni ma il terremoto è stato imprevedibile e forse ha spento sul nascere nuove possibili violenze”. Da Ankara a Istanbul è difficile che qualcuno non abbia avuto almeno un amico o un parente toccato dal sisma.
Tuttavia prevedere chi riuscirà ad avvantaggiarsi politicamente da questa situazione è complicato. “Da un lato il malcontento è diffuso, prima del terremoto si diceva che Erdoğan avrebbe potuto perdere perché la gente non riesce più a mangiare e si sente abbandonata dal Governo”. Allo stesso modo le fragilità portate alla luce dal sisma potrebbero spingere le persone a puntare sull’usato sicuro: “Non credo che ai turchi manchi il coraggio di cambiare ma con tutte queste tensioni la gente potrebbe preferire il pugno di ferro dell’Akp, perché in qualche modo sente che le varie fratture possono essere tenute sotto controllo”.
In altre parole, nonostante i sondaggi, l’esito delle elezioni è tutt’altro che scontato. Erdoğan infatti è una figura più carismatica rispetto a Kılıçdaroğlu e molti lo considerano un “animale” da campagna elettorale. “Il leader del Chp fatica a parlare alla pancia del Paese, inoltre, mentre l’attuale presidente ha impostato una campagna elettorale che promette un futuro radioso, la narrazione dell’opposizione è incentrata su una sorta di ritorno al passato dei valori democratici ma non è detto che questa scelta sia efficacie”. Secondo Masi, semplificando, la coalizione del Chp presenta molti punti in comune con il Centrosinistra italiano: “La differenza è che almeno in Turchia hanno saputo mettere da parte le differenze per affrontare un nemico comune”.
Per giunta all’opposizione vincere le elezioni potrebbe comunque non bastare. “Escluderei un nuovo golpe ma la vera domanda è se Erdoğan accetterà l’eventuale sconfitta”, il timore è che presidente uscente possa contestare le votazioni come fatto da Trump. “Ha tutti i mezzi per farlo, il sindaco di Istanbul del Chp, Ekrem Imamoğlu, ha dovuto rinunciare alla candidatura per le presidenziali perché è stato messo sotto processo per una frase contro il governo di Erdoğan”, in alternativa l’Akp potrebbe mettere in discussione la validazione dei voti stessi. Per la caporedattrice dell’East Journal l’opposizione dovrebbe puntare a una larga vittoria, cercando di non farsi trascinare in un insidioso ballottaggio: “Quello che mi preme evidenziare è che la Turchia non è la Russia, qui il voto non è finto. Se Erdoğan tenterà un colpo di mano dovrà assumersene i rischi”, conclude Masi.