Ragazzo del 57, giornalista dal 79, troppo piccolo per il 68, ha scansato il 77 ma non la direzione dell’Adige (8 anni 8 mesi e 3 giorni) e la politica (24 mesi in consiglio provinciale tra il 2018 e il 2020)
Il ricordo ''alfabetizzato'' del compianto fotografo e amico Pietro Cavagna tragicamente scomparso sabato in un incidente in montagna (Qui articolo).
A come Ala (anzi Pilcante), il suo paese. Di laggiù, lembo meridionale del Trentino, non ha mai perso l’Accento che a noi del profondo nord suonava un po’ veneto, esotico, e pure erotico. L’Amore regalava e cercava, il Piero, con quel suo sguardo indagatore e insieme indifeso. A come Avati, regista degli amori incompiuti. Noi due, Piero e io, non abbiamo fatto il militare a Cuneo. Ma a Cuneo ci siamo andati insieme per corredare di immagini un libro su Pupi Avati, che stava girando in quella città, trasformata poi sullo schermo nella Bologna degli Amici del Bar Margherita. Piero, a suo perfetto agio anche sul set sotto i portici, fece un servizio splendido. I suoi ritratti di Pupi lasciano ancora a bocca aperta.
B come Boci. Ai boci pensava spesso, sempre. Ai suoi figli, naturalmente. A cui aveva riservato, nel suo libro sulla vita dei disabili, una magnifica dedica: “a Riccardo ed Enrico e all’importanza del seme”. Ma anche a tutti i giovani, alle nuove generazioni. I loro volti fotografava, tra le Crispi, il Da Vinci, il treno per Auschwitz, cercando le scintille del futuro. Credeva che lo sport, la scuola, la storia passassero attraverso il loro prendere parte e farsi protagonisti. “Cossa fala, la politica, per i boci?” era il suo cruccio, ricorrente.
C come Copiare. Non aveva paura di copiare e rifare, il Piero. Halsman aveva fotografato persone famose nel momento del salto? E lui li faceva saltare, come per il nostro speciale all’Adige per il salto dal secondo al terzo millennio. Anche il vescovo di Trento ha fatto saltare. A Piero, grande seduttore, non si poteva dire di no. E lui rivendicava l’arte dell’onesta copiatura. Per una serata al circolo fotoamatori di Mattarello (2009) aveva scritto così: “Nel 1977 compro l’LP di Claudio Baglioni “Solo”. In questi giorni sto leggendo, per caso, anche due libri di poesia: “Giovani poeti americani” editato dalla Einaudi ed una raccolta di poeti dell’Unione sovietica. Con un certo stupore mi accorgo che Baglioni ha praticamente copiato tre poesie: quasi lo stesso testo, stesse parole ed immagini, uguali metafore. Vado guardarmi le note del 33 giri ma non trovo nessuna citazione delle poesie che ho letto. È allora che mi pongo per la prima volta il problema del “copiare” (allora suono la chitarra in un gruppo che accompagna la messa - erano i tempi della messa beat – e scrivo qualche canzone. Naturalmente con qualche idea di qualche autore che stimavo, del resto, se l’aveva fatto Baglioni, perché non avrei potuto farlo io ?) pensando però che sia ingiusto non citare la fonte da cui si trae ispirazione”. I suoi maestri li citava sempre, perché alla fine gli artisti contemporanei non inventano mai niente, tutto è stato già fatto, scritto e fotografato. Ma bisogna reinventarlo.
D come Debiti. Quelli artistici, dico, a proposito di copiare ma reinventando. “Il lavoro sulla Memoria che io e Matteo Rensi abbiamo realizzato con il Treno della Memoria, con 500 ragazzi trentini ad Auschwitz Birkenau, richiama evidentemente il lavoro di Jonathan Hollingsworth sulla guerra in Iraq, che richiama evidentemente il lavoro di Gillian Wearing sulla gente di New York, che richiama il lavoro di Ed van der Elsken sulla felicità che richiama il video di Subterranean Homesick Blues di Bob Dylan”.
E come Ex Zuffo. E come Entusiasmo. Nel libro di Andrea Tomasi “Fotocamera con vista” dedicato ai fotografi trentini (Il Margine 2009), Piero ricorda il conflitto tra i disobbedienti del Centro sociale e il Comune di Trento per lo sgombero dell’edificio ex Zuffo come momento emblematico e creativo nella città del Sessantotto ormai dimenticato: “Nell’amministrazione di Monaco di Baviera siedono cinque diciottenni… Le quote rosa sono inutili… È l’entusiasmo che deve andare al potere. Al potere ci deve andare chi ha delle idee. E tutto si può dire, tranne che i ragazzi del centro sociale di Trento non abbiano idee”.
F come Foto. E Folgorazione. Il Piero, che scriveva benissimo, avrebbe voluto fare il giornalista. Finché… “Nel 1995 sfoglio il mio primo libro fotografico ed è una folgorazione: “Minamata” di Eugene Smith. Leggo che lui passa tre anni con la moglie in questa piccola città giapponese e fotografa gli effetti dell’avvelenamento da metilmercurio che la Chisso, una grande azienda, sversava nelle sue acque di scarico che finivano nel mare avvelenando molluschi e pesci con cui si cibava la popolazione. Mi viene da piangere a sfogliare il libro. Mi dico: “A cosa servono le parole se si riesce a raccontare così bene con le immagini?” Credo che sia allora che decido di ascoltare il suggerimento dei miei amici più cari e di pensare seriamente a diventare un fotografo”.
G come Grande. “Tégnila granda, ‘sta foto. Ve racomando. Tegnìle grande, quele foto”. Il suo mantra. Come ha scritto benissimo, su Salto.bz, Riccardo dello Sbarba: “Quando era tua, la foto, la pagina si illuminava. Era l’editoriale più diretto e incisivo. Sentivi la vita, la sentivi scorrere, fotografavi non solo con l’occhio, ma col corpo tutto intero. Ti vedo ancora all’opera come fosse ieri. Mi incantava la tua velocità nel fermarti e cogliere l’attimo, la tua mano ferma, il senso del ritmo degli avvenimenti e dell’istante giusto per coglierne il segreto”. Per questo non gli piacevano le foto formato francobollo, le “fotine”. Se doveva raccontare qualcosa, doveva essere bella grande, la foto. Leggibile. Esplorabile a occhio nudo.
H come Handicap. Che non si chiama più così ma rende l’idea. Dello svantaggio di partenza. Piero era sensibile al tema. Alla realtà quotidiana delle persone con disabilità aveva dedicato un bel libro rettangolare, per le edizioni ViaDellaTerra, in collaborazione con Handicrea di Graziella Anesi. Il titolo, “Tutto il giorno tutti i giorni” diceva già tutto. Il grande fotografo Ferdinando Scianna, nella prefazione, scrive: “Cartier Bresson, maestro e amico, diceva che il tempo restituisce il rispetto con cui lo si tratta. E, insuperabilmente, ci ha insegnato che fotografare, fotografare bene, significa mettere sulla stessa linea di mira l’occhio, la mente e il cuore. La prima cosa che salta agli occhi, è il caso di dire, nel lavoro di Piero Cavagna, è il rispetto del tempo con cui lo ha messo insieme. … La lentezza, infatti, è un elemento chiave nell’universo della disabilità”.
I come Imagine. Sì, una m sola. Come la canzone di Lennon. Negli ultimi anni Piero immaginava, più che con le proprie immagini, con le immagini degli altri (la sua straordinaria collezione di libri fotografici) di cui si era riempito gli occhi, il cuore e la casa. Una specie di alluvione visiva, in cui ha rischiato di annegare. E immaginava grandiosi, immaginifici progetti. Nel 2016 la presentava così, la sua Imagine: “… è un innovativo progetto open knowledge centrato sulle immagini che si muove all’interno della sfera dell’innovazione digitale e sociale europea e ha l’obiettivo di produrre cultura attraverso l’archiviazione, la conservazione e la gestione critica della maggior quantità possibile di dati e metadati. IMAGINE è una piattaforma multimediale di scambio e condivisione di un vasto patrimonio iconografico mondiale trasformato in risorsa digitale. IMAGINE parte dalla costruzione di una biblioteca digitale (inizialmente, 4000 libri fotografici rari) e dalla gestione di un archivio fotografico digitale i cui contenuti possano essere resi accessibili e fruibili alla comunità…”. L’ultimo suo sogno, residuale, dopo la malattia, me l’aveva detto pochi giorni fa: andare a lavorare all’archivio fotografico della Provincia, fra i tesori di immagini dei fotografi che l’hanno preceduto.
L come Lancio. Del giavellotto, soprattutto (ma anche del peso). La sua prima eccellenza. Nell’irruenza della gioventù. Credo che si possa dire che Piero ha continuato a lanciare lontano. La lunghezza di uno stadio. Come con il giavellotto. Le sue idee non erano mai corte, miopi, asfittiche. Erano lunghe. L come Libri, la sua passione: li leggeva, li collezionava. Li inventava. Di legno. Da toccare con le mani per leggerli, con le parole che comparivano come in una magia. In custodie ardite. L’oggetto libro, negli ultimi anni, lo affascinava molto di più della carta da giornale.
M come Memoria. Pochi come Piero si sono appassionati con la sua intelligenza della questione memoria. La sentiva come un’urgenza intergenerazionale. E così scriveva per presentare l’innovativo “Progetto MMI Auschwitz 2010”: “Ogni simbolo collettivo è soggetto a logoramento. La Memoria non invecchia ma invecchiano le forme della sua rappresentazione, diventano scontate, consolatorie, automatiche, provinciali e quindi insufficienti. Ciò che sembra evidente alle persone della nostra generazione avrà sempre meno senso per i nostri figli e i nostri nipoti. Una memoria che sfuma in storia. È quando crediamo di essere capaci di ricordare che cominciamo a non farlo più. Ricordare è assumersi una responsabilità e questo hanno provato a fare i ragazzi di questo Treno e di questo lavoro”.
N come No. I tanti che si è sentito dire, di fronte ai progetti più ambiziosi. I tanti che ha detto. Certe cose non le faceva. A certi compromessi non scendeva. Certe foto rubate sul dolore degli altri non le cercava. Le furbizie, le mode non gli appartenevano. No.
O come Obiettivo. Non era un fanatico della tecnologia fotografica ma sapeva benissimo come lavorare, e giocare, con l’obiettivo. Soggettivamente obiettivo, era, come tutti i creativi. “Ero autodidatta. La mia prima macchina è stata una Fuji 805. Poi ho comprato una Nikon Fm, manuale. Sviluppavo le immagini nella camera oscura di corso Rosmini (redazione dell’Adige, Rovereto) ma non ci credevo veramente…”.
P come Politica. Piero è stato homo politicus. I suoi progetti culturali avevano bisogno di un’interfaccia con la politica che cercava con pazienza. I politici li ha frequentati, fotografati, conosciuti, evitati. Si appassionava dei possibili cambiamenti. Si affacciava curioso ai nuovi cantieri. Ci credeva. E poi si disilludeva. E lo diceva schietto. Quando, dopo che Pg Cattani ci aveva lasciato (un altro giorno 8: Piero l’8 ottobre, Piergiorgio l’8 novembre 2020), ho lasciato il Consiglio provinciale, mi ha scritto che non era d’accordo: “Caro Paolo, se non hai avuto le tue buone ragioni personali - e immagino questo sia successo - non condivido la tua scelta. Stavo per scrivere non accetto, quasi si trattasse di un rapporto personale. Forse in fondo lo è…”. Così mi scriveva alle 19.53 di sabato 21 novembre 2020: così, con pathos sincero, viveva la politica, il Piero. Poi ci eravamo visti, avevo provato a spiegare… La politica continuava ad affacciarsi, ad ogni caffè. P come Popolo, anche, dunque. A conferma della sua passione politica, Piero mi aveva scritto nel luglio 2018, nel pieno del travaglio per l’individuazione di un candidato presidente del centrosinistra: “Sono convinto ci sia un unico modo, adesso, per far fronte allo tsunami pericoloso che sta arrivando anche in Trentino: tracciare una mappa chiara e concreta di dove si voglia andare, senza indulgere troppo nelle descrizioni e nelle suggestioni. Parlo contro quello che credo e contro quello che, credo, credi. Ma la necessità di una sintesi operativa assoluta è essenziale per un Popolo che non ha più voglia di sentirsi entità minuscola e democratica ma vedersi, anche solo un po', riconosciuto il suo essere "politico" della vita di tutti i giorni”.
Q come Quasi. Era un genio, ma stressante, il Piero. Per i direttori, i capiredattori, i capicronisti. Aveva i suoi ritmi e non sempre coincidevano con quelli del giornale. A volte, le telefonate diventavano ansiose e ansiogene, magari se c’era in ballo un omicidio o un incendio. “Te sei lì?” “Tre minuti. Som chi che ‘rivo…”. E passavano, inesorabili, i minuti. Più di tre. Molti più di tre. E lui non si vedeva. Ma era quasi lì. Quasi. Ma alla fine il servizio, tra imprecazioni e suspense, te lo portava sempre a casa. “Tranquilli, ghe som… quasi”.
R come Rosanna. Che c’era. Che capiva. Che era lì. Quando cadeva, quando si rialzava. Quando è caduto.
S come Sensibilità. No, non quella delle pellicole con cui aveva cominciato a raccontare il mondo. La sua. Sensibile alle Storie, prima di tutto. Come De André che non ha mai raccontato se stesso, ma le vite degli altri. Anche Piero era così. Speciale. Il suo Sguardo aveva questa sensibilità al personale e al Sociale. Anche lo Sport, per lui, doveva essere questo: una politica sociale, per i ragazzi e le ragazze.
T come Trentino. Amata terra, certo, ma anche detestata per il suo provincialismo, la sua paura di osare. Per i suoi direttori dei giornali (nessuno escluso) che non credevano fino in fondo alla forza travolgente delle fotografie. Grandi. A Roma respirava più largo. Vedeva più lungo. Ad Auschwitz capiva il dramma dell’Europa. Ma non cercava neppure i grandi viaggi, i sogni dei fotografi internazionali. Sapeva che la verità si nasconde nei dettagli. Nei vicoli. Tra i muri di una scuola elementare.
U come Umanità. Umano, troppo umano. Fragile e difettoso, come tutti noi. Non nascondeva il suo bisogno di complicità. Di fraternità. Era affettuoso. Di uno dei suoi storici amici-colleghi, l’altrettanto mitico Renzo Maria Grosselli, con cui aveva costruito un bellissimo lavoro sul paese di Roncegno, ha detto così: “Per un po’ di anni abbiamo lavorato fianco a fianco. E si sono visti i risultati anche in termini corporei: a forza di grappa, vino e lucanica – perché col Renzo è così – in quel periodo sono arrivato a pesare fino a 126 chili”.
V come Volti. Quelli, gli interessavano. I ritratti umani, più che le cose e i paesaggi. O le cose che rispecchiavano i volti. La Verità della Vita, per Piero, erano i volti delle persone. E ci voleva uno sguardo come il suo, per farci guardare da quei volti. Il volto, insegnano i filosofi, rivela. Disvela. Vede e vive.
Z come Zorzi. Bruno. L’Amico fraterno. Inseparabile. Così, dalla Z alla A, si chiude il cerchio. Lui, che il Piero lo conosce meglio di chiunque altro, ha scritto, riguardo la sua collaborazione con la Galleria d’arte moderna di Roma a cui aveva trasferito il suo straordinario archivio: “La Roma della sua gioventù; la Roma che continuava ad amare perché come lui: intelligente e disordinata; bella e spesso accarezzata da una luce malinconica”. È proprio così: il disordine creativo di Piero, i suoi casini e i suoi sogni, erano un viaggio alla ricerca della luce giusta, di quella radente, obliqua, bella e malinconica, che illumina i giorni e i volti. Le storie. Le lacrime della storia.