Europee, "Poco nulla è stato fatto per la convivenza con la fauna selvatica", Cristina Guarda (Alleanza Verdi e Sinistra): "La carne coltivata? Una via di sviluppo"
Dalle guerre in Ucraina e Gaza alla transizione ecologica, dalla carne coltivata ai grandi carnivori, l'intervista alla candidata di Alleanza Verdi Sinistra Cristina Guarda nella circoscrizione Nord-Est

TRENTO. "Dai corridoi ai piani di controllo: le istituzioni non hanno mai intrapreso delle azioni per promuovere la convivenza con la fauna selvatica". A dirlo a il Dolomiti di Cristina Guarda, la consigliera regionale del Veneto è candidata per l'Alleanza Verdi Sinistra nel collegio Nord-Est alle ormai imminenti elezioni europee. "A Gaza ci sono responsabilità diverse. Da una parte abbiamo chi resiste, dall’altra chi pianifica un genocidio. Credo che si debba partire da qui e riconoscere la Palestina come uno stato indipendente a tutti gli effetti".
Nata a Cologna Veneta, cresciuta a Lonigo, dopo la maturità al Liceo A. Pigafetta (Vicenza), ha intrapreso gli studi di Economia. Lavora da 5 anni in diverse realtà aziendali e professionali, spaziando dal marketing alla contabilità al commerciale, e gestisce con il padre una piccola azienda agricola.
E' impegnata in importanti progetti legati all'Economia Civile: collabora alla realizzazione di una realtà finanziaria di solo microcredito alle piccole e medie imprese e si occupa di formazione su tematiche di Finanza e imprenditoria etica, promossa grazie a Laboratori parlamentari, workshops e scuole. E' attiva organizzatrice e partecipante di eventi, nazionali e internazionali, volti alla promozione del dialogo interculturale.
Dalle guerre in Ucraina e Gaza alla transizione ecologica, dalla carne coltivata ai grandi carnivori, l'intervista alla candidata di Alleanza Verdi Sinistra Cristina Guarda nella circoscrizione Nord-Est.
Sostegno all'Ucraina, cosa pensa di quello che è stato fatto oggi? Ritiene giusto e importante fornire armi agli ucraini? Come considera le sanzioni che sono state date alla Russia?
Il mio sostegno va alle persone, ai cittadini e alle cittadine, alle donne, agli uomini e ai bambini che soffrono. L’unica cosa che mi preoccupa è la loro vita, i loro diritti. Penso che alle persone comuni interessi prima di tutto che smettano di piovere bombe sulle proprie case, non importa a quale costo.
Purtroppo è il processo di pace che è mancato. Nessuno ha mai visto o sentito una delegazione europea da Putin per palare di pace? In nessun modo negherei che quella Russa è una terribile e ingiustificabile invasione. Sarebbe però ideologico pensare che semplicemente inviando delle armi, sporadicamente, l’Ucraina possa vincere una guerra contro la Russia e che questo porti la pace a un tratto.
Le strade possibili realisticamente parlando, a questo punto, sono solo due, e nessuna di esse è minimamente auspicabile. O Kiev si arrende - e ripeto, non c’è niente di giusto in questo - o vi dovrebbe essere un concreto intervento militare della Nato, che vorrebbe dire far scoppiare la terza guerra mondiale.
Questo bivio è il paradosso del mancato lavoro sulla pace che non è stato fatto quando si poteva. Ammetterlo, non è piangere sul latte versato, tutt’altro. E’ invece comprendere la realtà della situazione per capire quali scenari reali abbiamo di fronte e come realisticamente imbastire – se ancora possibile – un processo di pace.
Le sanzioni sono certamente comprensibili, e giustificabili. In qualche modo hanno leso la base della struttura gerarchica di Putin, ma non hanno sconfitto l’autocrate. Nuovamente, se si vuole essere non-ideologici, l’unica possibilità per sperare, ipoteticamente, in un futuro di pace deve iniziare con un cessate il fuoco incondizionate. Da li in poi sarà tutto un lavoro di diplomazia in cui l’Ue potrebbe avere un ruolo determinante, viste le sue competenze in materia, se solo avesse una politica estera propria e decisa.
Il ruolo europeo nello scacchiere internazionale, si è rafforzato o indebolito nel corso degli ultimi anni? Serve un esercito comune?
L’Ue ha diversi ruoli con diversi posizionamenti in questo scacchiere internazionale, e molto dipende da quale prospettiva li si osserva. Sul piano militare, ad esempio, l’Unione europea non ha una politica estera sufficientemente strutturata e ancora non è dotata di un suo esercito. Allo stesso tempo, l’insieme dei Paesi Membri ha la più alta spesa militare in rapporto al Pil del mondo. Come ci posiziona questo nel contesto internazionale? Sicuramente in una posizione ambigua.
Altrettanto ambiguo è il ruolo europeo commerciale e industriale. Nel 2011 eravamo leader mondiali in tutta la filiera delle rinnovabili, poi scelte politiche poco parsimoniose hanno abbandonato quel percorso per affidarsi completamente al gas (russo, e ora di altri regimi autoritari). Da una parte, abbiamo forse il migliore dei connubi tra potenzialità politiche, sociali, tecnologiche e scientifiche per essere pionieri del mondo sulla transizione ecologica globale. Dall’altra siamo bloccati in un’inettitudine politica e stiamo perdendo completamente il terreno rispetto a competitor vecchi e nuovi.
In un mondo evoluto non si può più parlare di eserciti senza parlare di ambasciatori di pace: perché tutto deve essere divisivo e di schieramento, da una parte o dall'altra, senza aver provato l'unica strada umana, quella convivenza pacifica? L’esercito comune dal mio punto di vista è una prospettiva valida ma solamente se comportasse una riduzione complessiva delle spese militari degli stati membri seguendo un principio di cooperazione, e non il contrario. Deve inoltre essere uno strumento sussidiario alla potenzialità più rappresentativa dell’Europa: la sua capacità diplomatica.
Però la futura Europa non solo dovrà gestire un esercito comune affinché non ci siano stati che usano la sovranità per essere più forte degli altri, ma dovrà dotarsi di un copro di pace per trasmettere in tutto il mondo un periodo di pace eterno.
Nella guerra Israele – Hamas, cosa bisogna fare?
Sicuramente non commettere l’errore di attribuire eguali responsabilità e interpretare egualmente le azioni delle due parti. Le responsabilità di un popolo oppresso ingiustificatamente da quasi settant’anni e che ha subito una esplicita strategia del terrore come ha dichiarato Netanyahu stesso, non sono esattamente le stesse dell’oppressore. Da una parte abbiamo chi resiste, dall’altra chi pianifica un genocidio esplicitando di volerlo fare: “Chiunque voglia ostacolare la creazione di uno Stato palestinese deve sostenere il rafforzamento di Hamas e il trasferimento di denaro a Hamas. Questo fa parte della nostra strategia: isolare i palestinesi di Gaza dai palestinesi della Cisgiordania” dichiarava Netanyahu al congresso del Likud, il suo partito, nel 2019 in questo discorso riportato da Le Monde.
Credo che si debba partire da qui e riconoscere la Palestina come uno stato indipendente a tutti gli effetti. Chiamiamo questo conflitto guerra, ma la guerra può esistere solo tra due Stati. Gaza non è uno stato, è una prigione tanto che non dispone del controllo dell’elettricità, dell’acqua, del cibo e dei beni di prima necessità. Gaza è un fazzoletto di terra in cui sono imprigionati 2 milioni di individui, e anche questo deve ridimensionare la nostra lettura del conflitto.
Non si tratta di tifare per l’uno o per l’altro, o nello scegliere di non vedere certe barbarie. Ritengo che quanto accaduto il 7 ottobre sia terribile. Tuttavia, cerco di vedere la questione con un approccio non ideologico e realistico, dove c’è chiaramente un oppresso, e chiaramente un oppressore.
Uno dei punti fondamentali nella prossima legislatura europea sarà la transizione ecologica. Lei ritiene che si debba accelerarla oppure rallentarla? Quale dovrebbe essere, secondo lei, il primo provvedimento da mettere in campo?
Non ci dovrebbe essere un vero dibattito su questo: rallentare la transizione significa condannare la specie umana al rischio di estinzione. Può mai essere questa un’ipotesi valida?
Secondo le road maps scientifiche siamo già in grave ritardo, e questo non dovrebbe solo smuovere i cuori ecologisti, ma anche le tasche di ciascuno e ciascuna di noi. Si pensi che già con l’attuale cambiamento climatico ci troveremo ad affrontare globalmente danni pari a 38 miliardi di dollari l’anno e le proiezioni sulla base degli scenari attuali attestano in futuro perdite anche fino a 135 miliardi di dollari l’anno.
Accelerare la transizione non è una opzione, ma una necessità. La vera domanda dovremmo porcela sul tipo di transizione che vogliamo affrontare e su quale modello di sistema vogliamo per il nostro futuro. Se una transizione dove il business farà i suoi interessi e il futuro sarà solo una proiezione edulcorata delle crisi odierne con qualche spruzzata di green, dove magari temporeggeremo fino all’ultimo per poi trovarci obbligati a fare in fretta e furia tutto alla fine. Oppure se vogliamo cogliere l’opportunità di riprogettare dalla base un sistema più giusto, che si occupi del benessere e della vita degli esseri umani in armonia con la natura, la biodiversità e gli ecosistemi, prevedendo schemi di supporto alle fasce che più di tutte rischierebbero di rimanere indietro durante il processo. Una vera transizione giusta non vuol dire temporeggiare. Anzi, vuol dire iniziare immediatamente a progettare il nostro oggi e il nostro domani.
Il tema della carne coltivata ha fatto molto discutere. La sua introduzione è positiva o negativa? Perché?
A parte il settore avicolo, l'Italia importa fino al 40% del fabbisogno, sia per il consumo fresco ma soprattutto nel settore della trasformazione. La carne coltivata, anche se non sostituirà la produzione animale nei prossimi 30 anni, può essere un asset di sviluppo per il nostro territorio, con produzioni senza antibiotici, ma anche riducendo drasticamente l'impronta di carbonio, visto che serve molta meno acqua e nessun tipo di foraggio.
Se viene vista come una possibilità di sviluppo, potremmo ridurre l'impatto degli allevamenti intensivi, ridurre gli impatti Ambientali e ridurre l'importazione, senza nessun danneggiamento della nostra attuale produzione, anche se come Greens auspichiamo in una riduzione delle produzioni e un aumento del consumo di vegetali tra i cittadini, anche in una visione di miglioramento della salute. In Italia il 60% dell'agricoltura lavora per produrre foraggio per la destinazione animale, non vi sembra che potremmo produrre vegetali di qualità per le nostre tavole?
Gestione della fauna selvatica, orsi e lupi vanno tutelati oppure oggi occorre abbassare il livello di protezione?
Avessimo fatto davvero ciò che serve per permettere la condivisione di territorio tra fauna selvatica e comunità, allora ne potremmo discutere. Tuttavia a oggi le pratiche per gestire la presenza della fauna selvatica, grandi carnivori compresi, non sono mai state perseguire dalle istituzioni: corridoi per evitare il passaggio su strade e zone antropizzate, assistenza per la prevenzione da predazioni personalizzata malga per malga, a seconda della gregge e della mandria, piani per il controllo della fertilità dei cinghiali, interventi sull'attività venatoria per evitare i danni agricoli prevalenti, in Veneto per esempio esempio causati da lepri e fagiani, reimmessi per l'attività venatoria.