Alpaca come esperienza turistica. Il coraggio di dire no a un trekking senza senso: appiattisce la complessità del paesaggio
Presentati come animali carini e affabili, gli alpaca sono sempre più diffusi come compagni di trekking sulle nostre Terre Alte. Ma quali sono gli effetti di questa presenza esotica sul senso del nostro percorrere i territori?
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
Originari del Sud America e discendenti domestici della più selvatica vigogna, gli alpaca da millenni vengono allevati sulle Ande per poterne utilizzare la pregiata fibra. Rappresentano l’equivalente delle nostre pecore: vivono in gregge e pascolano sulle praterie d’alta quota.
Negli ultimi anni sul nostro territorio a queste pratiche ancestrali legate alla tosatura, sono state sempre più affiancate attività legate al settore della pet therapy, per giungere infine al ben più fruttuoso ambito dell’intrattenimento turistico.
Così nel giro di meno di un decennio, dalle indiscusse esperienze terapeutiche con gli animali, si è passati alle ben più discutibili attività di trekking con gli alpaca, volte a favorire la conoscenza lenta del territorio grazie alla compagnia di questi morbidissimi cuccioli.
Durante un trekking con gli alpaca si cammina in fila indiana accompagnando gli animali mediante una lunghina (guinzaglio). Difficilmente il luogo attraversato riesce a ricevere attenzione, nonostante gli sforzi di qualche sventurata guida nel vano intento di raccontarlo.
Durante un trekking con gli alpaca più che altro ci si ferma: ci si ferma quando questi ultimi hanno bisogno di rotolarsi per terra; ci si ferma per guardarli fare i bisogni. Sono questi gli eventi d’interesse eccezionale, dei quali le meraviglie del territorio circostante non fanno altro che da sfondo inerte. Uno sfondo però essenziale alla successiva pausa per il selfie con l’alpaca, per il quale, naturalmente, ci si ferma ancora una volta.
In questo modo la complessità del paesaggio, fatto di intrecci storico-naturalistici delicati e antichissimi, viene sempre più relegata alla dimensione del non-luogo, soppiantata da un’esperienza che potrebbe svolgersi ovunque e che proprio per questo risulta decontestualizzata.
Un trekking con gli alpaca quindi si rivela essere un trekking privo di contesto territoriale, nel quale la formazione grandiosa delle guglie dolomitiche, l’armonia di coltivazioni terrazzate fatte di braccia e fatica o l’incanto dei giochi di luce nella penombra del bosco (solo per citarne alcuni), rimangono appiattiti a sfondi o al più a semplici orpelli dell’esperienza più importante: l’incontro con l’alpaca.
Un incontro peraltro ben poco soddisfacente, che si riduce per lo più nella constatazione della tanto agognata morbidezza di questi camelidi, grazie ad un discreto numero di carezze non corrisposte, alle quali gli animali si sottopongono con un misto tra passività e fastidio.
Così, nel tentativo vano di entrare in relazione con una bestia indifferente, dopo la complessità del contesto territoriale, durante questa esperienza si perde un ulteriore aspetto essenziale del trekking: la dimensione relazionale umana. Quella relazione che il camminare insieme, condividendo momenti di fatica, gioia e soddisfazione, alimenta. Quella relazione che, grazie al dialogo, facilita l’apertura all’altro in una dimensione di reale accoglienza e che sola può esprimersi in un’autentica reciprocità.
Ecco quindi che il trekking con gli alpaca si dimostra nel suo vuoto di senso, dato dall’assenza di quegli elementi che fanno di un trekking, un vero trekking: l’immersione consapevole nei territori e l’eventualità dell’incontro umano con gli altri camminatori.
L’invito è quindi quello di tornare a riconoscere il giusto valore ai luoghi e agli incontri, nella consapevolezza che solo il coraggio di oltrepassare la logica superficiale del carino, potrà restituire un senso ai nostri passi.